In quest’articolo tratteremo un altro indice davvero semplice, ma non per questo meno importante: l’indice e.c.p ovvero l’indice di efficienza del ciclo di processo.
Torniamo per un attimo su alcuni concetti discussi negli articoli precedenti (chi volesse li trova sul mio profilo linkedin oppure tornando indietro nel nostro gruppo “controllo di gestione commercialisti e consulenti”). Come abbiamo avuto modo di trattare, le attività produttive si dividono in due gruppi: quelle che creano valore e quelle che non creano valore. A noi chiaramente interessano le seconde. Tra le attività che non creano valore individuiamo ulteriori due tipi: quelle inevitabili (setup dei macchinari, manutenzioni periodiche ecc.) e quelle evitabili (la grande categoria degli sprechi di tempo). La prima categoria vede quindi operazioni inevitabili (ma certamente ottimizzabili), la seconda categoria invece è caratterizzata da operazioni che debbono essere semplicemente eliminate.
Ora, ipotizziamo un reparto ove sono presenti più fasi lavorative (magari caratterizzate da uno o più macchinari raggruppati in celle di lavoro) quale potrebbe essere il capannone dedicato alla trasformazione di prodotti caseari. Per semplicità prendiamo a riferimento solo tre fasi lavorative, nel dettaglio:
- Filatrice e formatrice
- Rassodamento
- Confezionatrice
Conosciamo inoltre i tempi standard (uomo e macchina) legati alla trasformazione di ogni singolo prodotto, in quanto abbiamo in precedenza definito le distinte base di ogni referenza realizzata. I tempi standard sono stati rilevati considerando solo quelle attività che creano valore.
Osserviamo come nell’arco di uno specifico mese la produzione venduta abbia sviluppato, in funzione dei tempi standard associati ad ogni singola referenza prodotta, le ore per fase lavorativa indagabili nella maschera “dettaglio ribaltamento” del software bussolastar (screen shot seguente)
Osserviamo come tutte le referenze prodotte nel periodo dovrebbero aver generato, per fase lavorativa, le seguenti ore di manodopera diretta:
- filatrice e formatrice: ore 342 circa
- Rassodamento: ore 225 circa
- Confezionamento: ore 4,5
Utilizzare il condizionale è chiaramente d’obbligo, in quanto queste ore vengono fuori da tempi standard rilevati cronometricamente e riconducibili solo ad attività che creano valore, cioè ove è prevista una trasformazione della materia lungo la catena del valore. Tutto il resto per semplicità l’abbiamo escluso.
Al fine di avere contezza delle attività che non creano valore (e tra queste quelle che riguardano le perdite di tempo), dovremo calcolare l’indice ECP, cioè l’indice di Efficienza del Ciclo di Processo. È semplice arrivare a questo indice, in quanto è dato dalla frazione:
ECP = (tempo strettamente necessario ad eseguire le attività che creano valore per il cliente)
(Tempo trascorso dal materiale all’interno del processo (process lead time))
I numeratori sono da noi conosciuti, i denominatori possono essere ripresi come sommatoria delle ore scaturenti dagli statini che gli operai stilano alla fine di ogni giornata lavorativa, in funzione del tempo lordo passato vicino le specifiche macchine (e che corrisponderebbe al tempo trascorso dal materiale all’interno del processo, in quanto nell’esempio trattato uomo e macchina lavorano in una sorta di “tandem”). Ad esempio
Tempo risultante da schede di presenza (in un determinato periodo):
Filatrice = 415 ore
Rassodamento = 440 ore
Confezionamento = 5 ore
Semplicemente avremo:
e.c.p. filatrice e formatrice = 342 / 415 € = 82%
e.c.p. rassodamento = 225 / 440 = 51 %
e.c.p. confezionamento = 4 / 5 = 80%
Risultano evidenti due aspetti:
1) Che per ogni 100 euro dall’imprenditore pagati come costo del personale, solo 51 euro sono realmente destinati alla creazione di valore (e.c.p. rassodamento), 49 euro invece sono destinate ad attività che non creano valore;
2) Che il flusso produttivo, a meno che non sia voluta la presenza ridondante di forza lavoro presso il ciclo di lavoro “rassodamento” (ipotesi poco plausibile), con buona probabilità non è teso (82-51-80). Il picco in basso del 51% (scarsa efficienza) potrebbe celare la creazione di colli di bottiglia e/o polmoni intermedi pieni di semilavorati in attesa di essere trasformati (condizione comunque da verificare).
Al commercialista che intende “vestire i panni” del controller non è richiesto per forza di cose indagare i motivi di queste inefficienze ma, grazie alla presenza di un corretto sistema di distinte base (contabilità industriale), può efficacemente mettere al corrente il proprio cliente rispetto situazioni anomale alle quali bisogna porre rimedio al più presto.
La riforma della Crisi d’Impresa prevede che siano istituiti degli “assetti organizzativi adeguati”. Certamente la conoscenza dei costi di trasformazione e, nella fattispecie, la conoscenza dell’efficienza del/dei reparto/i produttivo/i sono alla base di un corretto e proficuo assetto organizzativo. Gestire le efficienze (e aumentarle all’occorrenza) è garanzia di maggiori margini di contribuzione per prodotto, alias maggiore ricchezza che si trasforma in maggiore liquidità. Se è vero che “cash is king” e che la riforma abbia pienamente recepito quest’aspetto, è altrettanto vero che la liquidità dev’essere generata ed incrementata quanto più possibile, curando ogni causa che genera dispersione riscontrabile soprattutto all’interno del processo produttivo (in particolar modo nelle piccole e micro imprese).
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